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La difficile storia di Malgioglio, il portiere emarginato per l'impegno sociale e dimenticato nella malattia Astutillo e il calcio senza memoria Malcom Pagani
La difficile storia di Malgioglio, il portiere emarginato per l'impegno sociale e dimenticato nella malattia Astutillo e il calcio senza memoria Giocava in serie A e guidava un centro gratuito per la cura dei bambini distrofici. Vinse lo scudetto con l'Inter del Trap e sputò sulla maglia della Lazio perché i tifosi gli gridavano «torna dai tuoi mostri». A 48 anni, un male l'ha costretto a chiudere nel silenzio lo «scopo bellissimo» della sua esistenza Malcom Pagani Sui tetti la luna si specchiava nella neve. Astutillo Malgioglio aveva diciott'anni. Uscì di casa, impermeabile alla folla per conoscere un luogo misterioso. Era la vigilia di natale 1977. «Nacque tutto casualmente, un ragazzo mi propose di passare una festa diversa: 'vieni a trascorrere un'ora con queste persone, ne hanno bisogno'». Si fidò e venne illuminato. «Visitai con mia moglie un centro per ragazzi disabili. Rimanemmo molto colpiti». L'impatto con la sofferenza cambiò per sempre la vita di Malgioglio. «Sentii una spinta interiore, dovevamo fare qualcosa. Io e Raffaella iniziammo a far lavorare il cervello e ideammo Era 77». Un centro gratuito per le speranze di ragazzi con gravi problemi motori. «Spesso mi chiedevano se la mia scelta avesse avuto a che fare con la nascita di una figlia disabile. Niente di tutto questo. Sono nato in una famiglia che mi ha insegnato a voler bene e ad essere solidale». Malgioglio faceva il portiere. Da giovane arrivò anche in nazionale. «Mi è sempre piaciuto fare sport, col Bologna debuttai presto in A. Mi fece esordire Cervellati, poi mi trasferii a Brescia. Ero soltanto un ragazzo. Mi sposai prestissimo ed ebbi una figlia, quasi senza riflettere. Eravamo un po' allo sbaraglio, non avevo ancora il mio primo contratto e i soldi erano pochissimi». Arrivarono. Insieme al successo. «Fui per tre anni il miglior portiere della serie B, ero considerato molto forte». Astutillo in Lombardia si stabilì per cinque anni. «Avevo un presidente di nome Saleri. Un signore, un uomo buono. Fino a quando comandò lui, riuscii a conciliare la mia attività extracalcistica con l'impegno agonistico, poi la società entrò nella baraonda più assoluta, la gente che venne dopo seppe soltanto crearmi problemi e io me ne andai. Come atleta ho sempre dato tantissimo, senza mai saltare una seduta per occuparmi dei bambini distrofici. Staccata la spina e svanite le tensioni, spendevo il mio tempo per soccorrere gli altri. Qualcuno irrideva quest'atteggiamento, i più se ne fregavano». Barriere, incomprensioni, una costante della sua parabola. «Il mio impegno indignava tutti quelli che pensavano che un giocatore dovesse solo correre. Il fatto che prestassi anche soltanto poche ore ad un mondo che avrebbe avuto invece bisogno di una presenza costante, irritava». Stasera si gioca il derby di Roma, a Malgioglio non importa quasi niente. Ha giocato con Roma e Lazio. Esperienze che preferisce dimenticare. «La Roma mi acquistò dalla Pistoiese, arrivai nell'anno successivo allo scudetto». Nessun Bosman a vista. «Noi giocatori non contavamo niente, c'era il vincolo. La Pistoiese mi cedette e prese i soldi ma la scelta non mi rese felice: ero in un momento chiave della mia avventura e fare panchina a Tancredi, mi tarpò le ali. La Roma non aveva bisogno di un portiere titolare ma di un secondo che facesse la coppa Italia. Per farmi accettare la destinazione, mi dissero che avrei trovato spazio. Bugie». La squadra di Spalletti non gli sembra quella bella favola che in molti si affannano a descrivere. «Il fatto che la Roma lasci andar via Tommasi, significa non sapersi mettere la mano sulla coscienza. Il calcio avrebbe enorme bisogno di sentimenti come i suoi, eppure se li lascia sfuggire. E' inutile che poi dichiarino che le porte sono sempre aperte. Se sono così aperte, perché le hanno chiuse? A Tommasi avverrà esattamente quello che è accaduto a me. Non lo chiamerà più nessuno. La realtà è che il calcio è questo, se poi vogliamo raccontarci menzogne o verità consolatorie, possiamo dire che è un'altra cosa. Io non ci riesco, mi hanno abituato a non essere ipocrita». Di quell'ambiente sono rimasti a Malgioglio pochissimi amici. «Klinsmann lo sento tale, anche se mi capita di parlarci pochissimo, lui vive in America ma ai tempi dell'Inter si presentava in palestra due volte alla settimana. Conosceva tutti i ragazzi, andava a pranzo con i loro genitori, partecipava per quanto gli era possibile». Un caso unico. «Ho raccolto soprattutto indifferenza ma sapevo di essere un isolato». Le intercettazioni estive non lo hanno stupito. «Il pallone dovrebbe dimostrare di poter cambiare ma semplicemente si rifiuta di farlo. Non è cambiato nulla, ci sarà sempre qualcuno che muove i fili al di sopra di tutto. Non ho mai sentito paventare il nome di un giocatore universalmente stimato per la sua moralità, per il ruolo di capo dell'ufficio inchieste. Sarebbe una bestemmia. Quando hanno proclamato Albertini vice commissario della Figc, pareva avessero messo un'atomica in Federazione. L'hanno prima osteggiato e poi mandato via, preferiscono avere le solite persone. C'è un aggregazione di interessi che danno continuità al ciclo precedente. Quelli che si danno da fare per mutare direzione sono tacciati di sovversione». Alla Lazio, Malgioglio arrivò nel 1985. Dopo due anni alle dipendenze di Eriksonn, incontrò Simoni. «Ma di lui preferisco non parlare, perché potrei dirne solo male. Dalla Laurentina, rifugio degli anni romanisti, ero andato ad abitare nei pressi dello stadio. Nei fatti non potevo uscire di casa». I tifosi lo odiarono subito. Senza una ragione. Vennero a sapere della sua passione per i meno fortunati e si accanirono, brutali. Lo accusavano di scarso impegno. Cori ostili, fischi, insulti, volgarità spaventose. «A ripensare a quello che mi accadde alla Lazio, c'è da essere mortificati per il genere umano. Non riuscii mai a giocare tranquillo e la militanza romanista non c'entrava niente. Mi chiamavano «mongoloide», mi bersagliavano con oggetti durante le gare e gli allenamenti. Io giocavo in quei contesti e mi vergognavo per loro e per un pianeta in cui arbitri, compagni o avversari non si sentissero mai in dovere di interrompere quella violenza, prendendo posizione. Gridando: se non la smettete, non corriamo più. Di dire basta, si incaricò Astutillo. Quel giorno, le lacrime si fermarono sui baffi. «Giocavamo con il Vicenza, stavamo perdendo in casa». Il capro espiatorio indossava il numero uno. «Si scatenarono, era la regola». Esagerarono. «D'un tratto mi girai istintivamente e vidi quella scritta in mezzo alla curva». «Torna dai tuoi mostri», alcuni metri di striscione. Nero su bianco. Malgioglio si tolse la maglia. Sponsorizzava lavatrici. Frullò il presente in un gesto, la accartocciò, ci sputo sopra e la rilanciò ai suoi nemici. Fu l'apocalisse. «Lo feci con la consapevolezza di dire basta col calcio. Quella gente sui gradoni che non si rendeva conto di cosa davvero fosse importante nella vita, tutto sommato era relativa. Io volevo mettere uno stop, non ne potevo più». Le reazioni ufficiali furono in linea col pensiero della curva. «La società propose la radiazione, fu come essere aggredito un'altra volta. Mi accusavano con frasi vuote e senza senso: avevo insultato la bandiera, sostenevano. Per difendermi si mossero soltanto Mura, che ringrazio ancora adesso, Paolo Ziliani e Renzo Grandi, il mio preparatore all'epoca del Bologna. Scrisse un pezzo per L'Unità. Nessun altro mosse un dito, io pensai di ritirarmi e lo feci». Una telefonata lo recuperò alla causa. «Mi chiamò Trapattoni, credetti fosse uno scherzo. 'Uno come te, non è giusto che abbandoni', mi disse. Firmai in bianco. Giovanni era sensibile ai miei interessi, nello spogliatoio mi prendeva ad esempio». Nella lontana stagione dei record interisti, Malgioglio entrò in campo quattro volte e vinse lo scudetto. Il destino lo mise ancora di fronte alla Lazio il 4 marzo 1990. Il presidente Pellegrini gli suggerì un gesto di riconciliazione. Un mazzo di fiori da offrire alla curva. Fu una pessima idea. «Io ero contrario: 'presidente non serve a niente, so perfettamente come sono fatte quelle persone'». Aveva ragione, non erano cambiate. «Passai bruttissimi momenti. Alla mia famiglia dedicarono canzoncine irriferibili, poi iniziò il tiro a segno. Radioline, pile, bottiglie, transistor e io in piedi, senza mai cadere. Conclusi la partita ferito, col sangue che mi colava dalla testa. Nessuno venne a chiedermi scusa o a sussurrarmi grazie per la mia correttezza». Malgioglio si tolse dalla scene, davvero, nel '93. Oggi sta male e ha dovuto chiudere la sua associazione. «Era tutto gratuito e i soldi per un'impostazione del genere, l'unica possibile, non c'erano più. Ho regalato tutti i macchinari. Per un po' ho aiutato i pazienti a domicilio, poi la mia salute è peggiorata sempre di più. Peccato, è stato il bellissimo scopo di tutta la mia esistenza. Quello a cui col fisico non posso arrivare, cerco di farlo ancora con la mente. E' ciò che mi fa andare avanti». Il doping non c'entra col suo male, sul tema però il dottor Malgioglio, laureato in medicina, ha un orizzonte chiaro. «Il doping è sempre esistito. Mi ricordo fin troppo bene la serietà dei controlli: un bicchierino per fare la pipì e poco più. Raccontare altro, vuol dire non aver capito nulla. Ho sempre studiato e recentemente ho seguito il caso della Fiorentina '73-'74. E' una storia che potrebbe riguardare tante squadre: i farmaci che usavano a Firenze erano utilizzati quasi da tutti». Malgioglio è in pace con la sua coscienza, crede in Dio. Gli basta. «Non si può sperare di arrivare al momento finale ed essere assolti, se non si è fatto niente per gli altri». Astutillo Malgioglio, 49 anni a Maggio.
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