"Camminavano tutti a piedi, quella mattina. Come il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, che dal Quirinale si incamminò verso Santa Maria della Vittoria per assistere alla messa. O come il presidente del Consiglio Mariano Rumor, che raggiunse passeggiando Palazzo Chigi dopo aver preso la metro dall'Eur al Colosseo. Ma, misteri italiani, l'emergenza che appiedò il Paese non fermò né il calcio né i tifosi. Che, nel giorno in cui fu vietato l'utilizzo di veicoli privati, riuscirono a trovare abbastanza autobus e taxi per partire da Napoli e raggiungere la Capitale. Erano in trentamila, all'Olimpico.
E, tra loro, c'era il diciassettenne Alfredo Della Corte, arrivato a Roma a bordo di un pullman noleggiato insieme con 45 amici, ottomila lire a persona tutto compreso: biglietto per la curva, colazione, pranzo, cena a Frascati e ritorno a casa a mezzanotte. C'era da vedere il Napoli quel giorno, la squadra allenata da Vinicio, quella di Carmignani, Bruscolotti, Canè, Juliano, Clerici. All'Olimpico arrivava da capolista, e contro aveva la Roma di Nils Liedholm, quella con Domenghini e Prati. Lo chiamavano ancora il «Derby del Sud», e grazie al gol di Braglia finì uno a zero per i partenopei. Quando uscì dallo stadio — racconta Umberto Ottolenghi sul Messaggero di Roma il 3 dicembre del '73 — Alfredo aveva una bandiera in mano. Una con il manico leggero, di quelli da tenere con due mani che sennò si rompe. E di plastica, «ché fosse chiaro che non la voleva usare come arma». Era quella bandiera che il ragazzo stava sventolando quando un tifoso della Roma «tarchiato, con gli occhiali e rossiccio di capelli» decise di assalirlo. Alfredo gridava «Forza Napoli», e lui voleva ferirlo con un coltello a serramanico, che però gli cadde a terra ancora chiuso. Così decise di tirare fuori dalla tasca una pistola calibro 22 con proiettili svedesi rinforzati e sparò due volte. Un colpo andò a vuoto. L'altro, invece, centrò alla bocca Alfredo, attraversando il labbro, spezzando nove denti e fermandosi nella mascella dopo aver evitato per un centimetro la giugulare.
Il ragazzo si accasciò su Vincenzo Del Vecchio, l'amico che aveva accanto. Un altro, Gigino, 18 anni, rimase impietrito, poi fuggì alla vista delle forze dell'ordine che accorrevano salvo pentirsene subito dopo: «Ho pianto per la mia vigliaccheria». Della Corte, nel frattempo, fu trasportato prima all'ospedale Santo Spirito, dove fu sottoposto a un intervento chirurgico per estrarre il proiettile dalla mascella, poi al San Camillo, dove il professor Lionello Ponti raccontò ai cronisti: «È vivo per miracolo, la pallottola è stata rallentata da un molare». Era un ragazzo pulito, Alfredo. Non portava coltelli o pistole. Anzi, aveva giubbetto e pantaloni così attillati che all'inizio identificarlo fu difficile, ché la carta d'identità l'aveva consegnata a Gigino perché in tasca gli dava fastidio. Quella sera, Alfredo, non cenò come aveva previsto a Frascati. Il suo autobus ripartì nella notte, mentre la polizia dava la caccia all'ultrà romanista che intanto era fuggito con la pistola in pugno tra la folla che scappava terrorizzata. Al San Camillo, accanto ad Alfredo Della Corte, restarono due tifosi del Napoli, proprio come è accaduto quarant'anni dopo a Ciro Esposito. Le analogie tra i due casi sono impressionanti. Entrambi tifosi del Napoli, entrambi feriti a colpi di pistola, entrambi colpiti da un ultrà della Roma. Ciro è di Scampia, Alfredo viveva a Chiaiano, un altro quartiere della periferia nord di Napoli. Ciro ha un autolavaggio, Alfredo lavorava come garagista. Quel che cambia, invece, è il racconto «ufficiale» delle autorità di sicurezza. Quarant'anni fa, per sminuire la gravità dell'episodio, il brigadiere di turno disse che l'agguato ad Alfredo era «solo una questione di tifo». Sabato scorso, al contrario, per evitare problemi è stato utilizzato lo stratagemma opposto, dicendo che il ferimento di Ciro non era collegato a scontri tra tifosi. Quelli che, dal 1973, attraversano la storia di un calcio sempre più nel pallone."
|