NOTIZIE AS ROMA - Rudi GARCIA, all'indomani della vittoria contro il NAPOLI, ha rilasciato una lunga intervista a Le Parisien.
Si è adattato così rapidamente grazie allo spagnolo? E' stato un vantaggio parlare in spagnolo anche se è diventato uno svantaggio perchè ci sono talvolta frammenti di spagnolo nel mio modo di parlare italiano. La grammatica è la stessa del francese, le cose così sono più facili. Mi ha aiutato anche il latino che ho studiato in gioventù.
Hai la sensazione di aver cambiato le cose? Io faccio lo stesso lavoro, passo la mia giornata a Trigoria. Ho cambiato alcune cose nel club, ne ho portate altre. Il grande vantaggio è che abbiamo l'hotel quindi posso avere i giocatori lì tutti i giorni. Preferirei stare anche io in hotel ma non è possibile: dopo la vittoria contro l'Inter c'erano 1000 persone a Fiumicino ad aspettarci, ed era solo la settima giornata.
Credete di poter vincere il campionato italiano fin da questa stagione? No, sono uno che si appoggia sul passato ma che vive nel presente. Non guardo a quello che farò tra uno o cinque anni, né a quello che succederà a maggio.
Cosa sorprende di più? La presenza mediatica, il fervore dei tifosi mi sorprende ancora. La gente vive per e con l'As Roma: è tua moglie e la tua religione. Quando hanno vinto il titolo l'ultima volta hanno celebrato per mesi. Io non ho questo atteggiamento, sono misurato. E' una vera soddisfazione aver ripristinato il sorriso e l'orgoglio dei sostenitori.
E' possibile avere privacy in queste condizioni? Si, ci sono alcuni posti in cui puoi stare tranquillo. Ho visitato la città quando sono arrivato. Ora ho scoperto un'altra Roma, la Roma dei passaggi segreti, quelli che solo i romani conoscono. Ci sono delle meraviglie da visitare. Cammino di sera e ho scoperto una città incredibile.
Ha avuto modo di approfondire la cultura romana? No, non ancora. Devo prima padroneggiare la lingua. Le priorità sono state quelle di immergermi prima nella città, nella lingua e nel club.
Rudi, come è andata davvero per il suo arrivo alla Roma? Ero in piena riflessione. Ero ancora del Lille per questa stagione e volevo sapere quale sarebbe stato il mio futuro alla luce del cambio in corsa del progetto societario, rispetto a quello che mi era stato presentato all’inizio. Poi la Roma si è fatta sentire, a Milano ho incontrato Walter Sabatini, il ds della Roma. Un uomo di carattere, che ti guarda negli occhi, che ti parla in modo molto schietto e onesto. Ed è stato un incontro interessante perché la sua prima frase è stata: “Ti abbiamo fatto venire a Milano – io ero infatti in ferie per alcuni giorni – ma non sarai tu il prescelto”. Dunque era una bella sfida (ride, ndr), siamo rimasti due o tre ore a discutere, e poi alla fine, tre giorni dopo, sono dovuto volare a New York per incontrare il team del presidente della Roma, Pallotta – sì perché abbiamo da due stagioni una proprietà americana – poi le cose si sono accelerate. La Roma è un grande club europeo, un club che per me non ha vinto abbastanza, sono solo tre gli scudetti in vetrina, pur essendo la Capitale d’Italia. È un posto difficile, me lo avevano anticipato, l’ho subito visto con i miei occhi, ho capito immediatamente che era necessario avere del carattere per allenare la Roma. Ma è una sfida fantastica. La cosa più frustrante per me – debbo ammetterlo – è stata la lingua. Parlavo due parole d’italiano al mio arrivo… Ho trovato soprattutto un gruppo ferito. Questa cosa mi ha molto colpito. Poi abbiamo visto gli striscioni, alcuni pseudo-tifosi hanno insultato alcuni dei miei giocatori prima della partenza per il ritiro e lo hanno pure fatto a 700 chilometri da Roma, fino alla frontiera con l’Austria. Per prima cosa abbiamo dovuto proteggere i giocatori, poi ridare loro fiducia, e innanzitutto in loro stessi. Per esempio Federico Balzaretti, che ha segnato al derby. Poi sapevo che tutti erano irrequieti per il fatto di dover giocare il derby alla quarta giornata, anche in seno al club, ma per me era meglio così: avremmo voltato pagina al più presto. Ovvio che dovevamo vincere quella partita, ma ci siamo arrivati con tre successi di fila e 9 punti in tasca, che ci hanno aiutato molto. E questo ha permesso di cancellare un po’ quel terribile momento che la Roma aveva vissuto perdendo la Coppa Italia nella scorsa stagione, nel mese di maggio, contro il nemico giurato, che è l’altra squadra della città. Ecco, da quel momento le cose vanno bene.
Non ne conosce il nome? (l’intervistatore ride, ndr) È la squadra di cui non si pronuncia mai il nome (ride anche Garcia, ndr).
Ok. Ho un altro piccolo video da mostrarle, Rudi (si vede Garcia che lancia dei cori verso i tifosi del Lille, come un capocurva, ndr). Ho fatto mettere queste immagini perché il passaggio al Lille rappresenta un punto importante della sua carriera di allenatore. Allora, a che punto è del suo cammino personale? Non ho un piano per la carriera, è molto onesto da parte mia dirlo. Ho sempre lavorato nei miei club come se ci dovessi rimanere per sempre, ho fatto questo a Dijon, che ha dato inizio alla mia avventura come allenatore di prima squadra, e infatti ci sono rimasto 5 stagioni. L’ho fatto al Le Mans, ma lì sono stato un anno solo perché il Lille, il club dove sono cresciuto (come calciatore, ndr), è venuto a prendermi. Alcuni erano parecchio scettici al mio arrivo, perché secondo loro mi servivo di questo club come rampa di lancio… ma 5 anni segnano la storia di un uomo. Ho vissuto uno storico “double” (coppa e campionato di Francia, ndr) e delle cose incredibili, non solo con i miei giocatori, ma anche con i miei dirigenti, con il presidente Michel Seydoux. Cose che saranno incise per sempre nella storia del club e nella mia personale memoria. Ecco… poi… non avevo mai pensato di allenare un giorno in Italia e ancor meno la Roma, anche se avevo visitato la città 3 o 4 anni prima e mi ero detto che era veramente fantastica. Oggi poi l’avventura continua. Qualsiasi cosa accadrà alla fine di questastagione, sarà stata comunque un’esperienza che mi avrà arricchito personalmente. E sarà stata molto appassionante. Questo è sicuro.
Parlando di motivi personali e di cammini tracciati, ricordiamo un uomo, suo padre, che se n’è andato quasi cinque anni fa. José Garcia, allenatore, giocatore, Sedan, Dunkerque, grande personaggio del Corbeille-Essonnes… era tutto scritto per lei, Rudi? Non credo. Vedevo papà fare questo mestiere, anche se a livello dilettantistico. È arrivato fino alla seconda divisione francese, cosa già molto buona. Ma io lo vedevo lavorare tutta la giornata (quasi certamente non nel calcio, ndr), la sera andava agli allenamenti e poi stava via tutto il fine settimana perché a quell’epoca si partiva in bus il giorno prima della partita e si tornava il giorno dopo. E io adolescente mi dicevo sempre che era un mestiere molto ingrato: quando vinci, sono i giocatori che vincono; quando perdi, è l’allenatore che perde. Mi ero proprio detto, per scappare da quel destino che era mio, e lo sapevo, che non avrei fatto questo mestiere.
Ma poi, ovviamente e logicamente, essendo caduto da piccolo nel pentolone (come Obelix, è un modo di dire francofono, ndr) faccio delle cose – oggi – che sono per lui, per mio padre.
Suo padre era malato per la bicicletta. Sì, esatto. Ho un nome germanico come il campione tedesco (di ciclismo, ndr) Rudi Altig.
È per lui che suo padre le ha dato il nome Rudi? Sì, e anche per avere questo piccolo lato cartesiano che fa un po’ difetto ai popoli latini (Garcia ride, e con «cartesiano» intende metodico, rigoroso, ndr). Sicuramente è così.
Rudi Altig, vincitore nel 1964, anno della sua nascita, del Giro di Andalusia e del Giro delle Fiandre. Tra le persone che hanno segnato il suo cammino c’è ovviamente suo padre. Ma c’è un altro viso forte che vorrei farle vedere (scorrono delle immagini, ndr). Quello di Robert… Ovviamente! Robert Nouzaret! Quando lascio il Lille – non bisogna scordarsi che ci ho giocato 6 anni, è lì che ho firmato il mio primo contratto professionistico e ho trascorso begli anni – Robert diventa l’allenatore del Caen e mi ingaggia, Caen che era per la prima volta in prima divisione. È una persona dalla quale ho imparato parecchio. Quando mi ha chiamato come assistente al Saint-Etienne, mi ha insegnato a strutturare un club. È un grande “costruttore” (probabilmente un manager alla Ferguson, ndr), è un gran signore e ha certamente contato molto per me, sia quando ero giocatore al Caen sia per il mio reintegro tra i professionisti, perché non mi scordo che ho anche allenato tra i dilettanti (al Corbeille-Essonnes, ndr), dove ho ottenuto una promozione. È vero anche che, quando alleni tra i dilettanti, hai voglia di tornare tra i pro. E Robert mi ha permesso di farlo. Ecco, posso dire che la mia qualità nel saper fare tutto e nello strutturare un club la devo a lui.
Lei ha un carattere risoluto, ma poi vediamo che ci sono molte cose che la toccano, suo padre, Robert (Nouzaret, ndr), o che addirittura la fanno un po’ barcollare. Ci sono così tanti altri visi sul suo percorso. Ce n’è uno molto forte che l’accompagna sempre, un viso scolpito con il coltello (testuale, ndr), che ha giocato con lei nei Pulcini a Corbeille- Essonnes. Un bel tipetto anche lui. È Fred Bompard (il suo vice alla Roma, ndr). Fred è il mio fedele assistente.
Avete vissuto tutto insieme: i Pulcini, le ragazze, la disoccupazione. Sì, abbiamo vissuto parecchie cose insieme. È veramente una persona che merita di essere conosciuta, perché sotto l’aspetto un po’ burbero, massiccio, ha un cuore grande così. È un lavoratore instancabile. Sotto questa faccia da duro si nasconde un uomo affettuoso. Come me, penso.
(mostrano a Garcia il video in cui, dentro lo spogliatoio del Lille, suona “Porompompero” di Manolo Escobar, ndr) È un po’ quello che è successo quando sono arrivato alla Roma. Ovviamente sono andati a cercare delle cose della mia vita precedente, tra le quali questa. Finora è andato tutto bene, non c’è stato nessun problema particolare, ma le posso assicurare che, se non fosse così, sono cose come queste che possono generare problemi.
(l’intervistatore chiede al pubblico se vogliono vedere Garcia suonare ancora quel brano in diretta, e in studio gli viene data una chitarra, ndr). No, no, no. Nella vita non possiamo ripetere due volte gli stessi errori. Dovete capire che in Italia c’è una copertura mediatica enorme. Come ho appena detto, sono cose che non rinnego, che sono state fatte in un contesto particolare e preciso.
Ci faccia solo un piccolo accordo alla U2, allora. No, no. È vero che gli U2 sono il mio gruppo preferito, ma meglio di no. La musica è importante nella vita di tutti e nella mia in particolare. Ci sono dei momenti forti della vita che possono essere accompagnati da questo tipo di musica, la usiamo a volte nel dopogara durante i nostri confronti. Ma ecco, questo è un po’ il mio universo personale e particolare e soprattutto un pezzo della mia gioventù che adesso è molto lontano.
Come i barbecue il giovedì a Caen. Sì, i barbecue il giovedì a Caen con amici che oggi sono stranamente quasi tutti allenatori.
Rudi, a lei piace questo profilo di attaccante che attira a sé i difensori. Come Tulio de Melo al Lille. No, quello che mi piace è avere a disposizione vari attaccanti con profili complementari e diversi, cosa che avevamo a Lille con il profilo di Tulio de Melo, un attaccante di quel tipo. Ed è quello che ho oggi a disposizione alla Roma, visto che Francesco Totti può giocare come punta. Gervinho anche, ma ho un Marco Borriello che è un attaccante da area di rigore. Avere una serie di opzioni, con vari profili di attaccanti che sappiano fare più movimenti, è certamente un “di più” per la squadra e per l’allenatore.
(Passano al maxischermo le immagini di Townsend del Tottenham, ndr) Rudi, parlavamo dell’importanza di avere giocatori di fascia come Debuchy (allenato da Garcia al Lille e ora in nazionale, ndr). Da qui l’importanza di avere preso Gervinho alla Roma. Gervinho che davano per cotto. Beh, la risposta viene sempre dal campo. Non esiste un altro tipo di risposta. Ma è vero (riferendosi al filmato, ndr), Townsend è un giocatore raro nel calcio moderno, non ci sono tanti attaccanti come lui capaci di andare nell’uno contro uno, di portare via gli avversari e poi di andare in profondità, grazie alla loro velocità, facendosi dare la palla. È per questo che ho preso Gervinho. E per il momento va molto bene, sì…
Ah beh, sì, eccome se va bene… Molto bene, anche! (Garcia ride, ndr)
E Strootman? Sta bene, sta bene. In più (parlando dell’Olanda, ndr) erano già qualificati prima di questa partita (con l’Ungheria, ndr) e noi giochiamo venerdì (domani, ndr) contro il Napoli e spero che martedì van Gaal mostrerà buon senso (e così è stato, Strootman non è sceso in campo, ndr).
Ma lei dà delle direttive ai giocatori o, come gli altri, chiama il selezionatore della nazionale? No, ma quello che succede è che esiste uno scambio di informazioni con loro. Non chiediamo nulla perché il selezionatore è l’unico a decidere cosa fare con i suoi giocatori, ma mi è piaciuto moltissimo quello italiano (Prandelli, ndr), che ha detto in conferenza stampa che sa bene che c’è una partita importante tra Roma e Napoli venerdì (domani) e avrebbe mostrato buon senso nei confronti dei giocatori della sua selezione. Ecco, penso che sia una buona cosa.
Qual è il profilo di Strootman? Lo si conosce poco. È un giocatore che sa fare tutto, con molto carattere, a 23 anni è già capitano della nazionale olandese. Formidabile piede sinistro, abile nel proiettarsi in avanti, capace di cambi repentini di ritmo, vede tutto prima di tutti, col suo piede sinistro è capace di fare qualsiasi cosa.
Come lo ha preso la Roma? Abbiamo parlato molto con Walter Sabatini, non era facile prenderlo, prima di tutto perché il PSV è un cliente molto ostico nelle trattative. E poi era necessario convincerlo. Ho passato molto tempo a parlare con lui al telefono prima di fare breccia e di persuaderlo che volevamo creare una grande squadra. E che avevamo il progetto di diventare uno dei più grandi club europei nei prossimi anni.
Cosa lo ha fatto esitare? È stato uno dei pochissimi giocatori che, quando gli ho parlato la prima volta, mi ha chiesto quale sarebbe stato il profilo della squadra, quali giocatori soprattutto ne avrebbero fatto parte. E questo è davvero raro, perché l’allenatore spiega la propria filosofia e il suo sistema di gioco, mentre lui voleva sapere chi sarebbe stato lì, chi sarebbe partito ma specialmente chi sarebbe arrivato, per essere sicuro della sua scelta. E spero che ora non sia deluso.
Rudi, come siete messi in difesa? Avevamo già dei giocatori in certi ruoli, “Leo” Castan, brasiliano, Nicolas Burdisso che tutti conosciamo e una promessa molto giovane che di nome fa Romagnoli. Abbiamo reclutato Mehdi Benatia, che tutti qui nella regione di Parigi conoscono e poi un giovanissimo di 17 anni, il nostro piccolo baby (testuale, ndr) Tin Jedvaj. Ma la mia cerniera difensiva, che funziona e ha preso solo un gol, è Benatia-Castan, una cerniera molto sicura non solo in fase di ripartenza ma anche molto forte fisicamente, nei duelli. Dal punto di vista difensivo, sono perfettamente complementari. Sì, per il momento va tutto bene.
Benatia. Gran bel colpo perché era molto richiesto. Per lui ha fatto la stessa cosa di Strootman? Una telefonata? Sì, ci siamo parlati con Mehdi ed è stato anche più facile visto che ci conoscevamo già da un po’. E poi anche perché proviene dal mio stesso dipartimento (il 91, ovvero Essonne, ndr). È un giocatore di grande qualità e talento, con un senso dell’anticipo fenomenale, forte di testa, forte fisicamente, ma soprattutto un uomo di grande spessore, intelligente, uno che ragiona bene. E questo è molto interessante per un allenatore, perché un calciatore così è anche un uomo spogliatoio. Poi ha giocato tre anni all’Udinese, parla un italiano perfetto. Ecco, speriamo che duri. Tutti insieme, siamo per il momento molto solidi dal punto di vista difensivo.
In una tragica sera del gennaio 1977 Luciano Re Cecconi viene freddato da un colpo di pistola esploso dal titolare di una gioielleria. "Cecco", come amorevolmente lo chiamavano i tifosi della Lazio, aveva contribuito a regalare ai capitolini uno storico scudetto. Era molto conosciuto a Roma ma non dal titolare di una gioielleria, al secolo Bruno Tabocchini, che scambiandolo per un rapinatore lo uccise. Per anni sulla tragedia di quel calciatore biondo e decisamente poco estroverso è stata fornita la versione dello "scherzo finito male". Questa teoria, rafforzata da un processo frettoloso e da una opinione pubblica soddisfatta, è stata tramandata per 35 lunghissimi anni senza che nessuno avesse voglia o interesse a metterla in discussione. A ribaltare la tesi è stato il giornalista Maurizio Martucci con il suo libro-inchiesta Non scherzo. Re Cecconi 1977, la verità calpestata (Libreria Sportiva Eraclea, 2012). Il giornalista romano dimostra che "Cecco" rimase vittima di una tragica circostanza, ma non pronunciò mai le parole "Fermi tutti, questa è una rapina" che innescarono nel gioielliere la reazione armata.
Martucci, sono passati tanti anni può brevemente ricordare chi era Luciano Re Cecconi? "All’epoca era un giocatore molto importante. Aveva una caratteristica distintiva: era biondo. A Roma faceva innamorare le ragazzine e veniva dipinto come un latin lover anche se non lo era affatto. Era un giocatore di primissimo livello ed era entrato nel giro della Nazionale quando le partite degli azzurri erano al massimo 10 all’anno. Se stavi in quel giro era un riconoscimento di prestigio e poi non c'erano i campioni stranieri. Oggi, a distanza di anni, c’è ancora gente che si commuove per la scomparsa di quel ragazzo di 28 anni".
Lei ribalta la versione ufficiale della morte di "Cecco". Come si svolsero i fatti di quel tragico 18 gennaio 1977? "Luciano Re Cecconi non ha fatto niente. La teoria dello scherzo finito in tragedia è quella della difesa del gioielliere. Bruno Tabocchini portò avanti questa teoria e riuscì ad affermarla in tribunale attraverso un processo per direttissima celebrato in 18 giorni. Un processo anomalo e pieno di pecche. La verità è che si è trattato di una disgrazia. Erano anni particolarmente difficili. Romanzo Criminale descrive in modo filmico quel periodo, ma rende l’idea di una Roma città a mano armata dove c’erano sparatorie e morti all’ordine del giorno".
Ma nello specifico, come si arrivò alla disgrazia? "C’era un gioielliere che viveva in un clima d’ansia e che aveva già subito una rapina vera scatenando una sparatoria a cielo aperto. Tabocchini era una corda di violino ed era emotivamente molto provato, vide entrare nella sua gioielleria due persone che non conosceva cioè Re Cecconi e Pietro Ghedin, accompagnate da un profumiere romano chiamato Giorgio Fraticcioli. In pochissimi secondi si consumò la tragedia: una incomprensione, Tabocchini che tira fuori la pistola e la punta su Ghedin, poi gira l’arma su Re Cecconi sfiora il grilletto e parte un colpo mortale. Era una pistola priva di sicura e con il cane sensibilizzato quindi è bastato spostare l’arma e sfiorare il grilletto per colpire il calciatore. E’ una dinamica assurda, ma è esattamente questo quello che è successo".
Allora come mai si è creato il mito dello scherzo di Re Cecconi e delle parole "Fermi tutti, questa è una rapina"? "L’informazione allora era diversa e non c’era la multicanalità. Le notizie venivano veicolate in parte attraverso i giornali e in parte attraverso i canali e la radio Rai. La versione diffusa da questi canali, molto ristretti, fu quella dello scherzo perché l’unico che parlò con la stampa in quel tragico 18 gennaio fu il gioielliere. L’altro testimone oculare dell’omicidio era l’attuale allenatore della nazionale di calcio femminile Pietro Ghedin. Quella sera Ghedin andò a dormire a casa di Gigi Martini, suo compagno di squadra e amico inseparabile di Re Cecconi. Ghedin gli raccontò che 'Cecco' non aveva fatto nulla. Nei giorni successivi, probabilmente pressato dall’opinione pubblica, Ghedin cambiò versione avvalorando la tesi dello scherzo. Anche in tribunale fornì due versioni diverse: nella frase preliminare disse che non c’era stato nessuno scherzo, mentre durante il processo cambiò e ribaltò la sua versione. Infatti dagli atti emerge che anche il giudice gli domandò perché stesse cambiando versione. La tesi dello scherzo a questo punto venne avvalorata anche dal profumiere e nessuno ebbe il coraggio di indagare oltre. Perché? C’è un altro elemento molto importante di questa vicenda: Re Cecconi venne bollato politicamente".
Cosa c’entra la politica con un fatto di cronaca nera indirettamente legato al mondo del calcio? "Già, cosa c’entra la politica con il calcio? Allora però la Lazio veniva bollata dai mezzi di informazione come una squadra marcatamente schierata a destra. Quindi i media non solo non indagarono sulla morte del calciatore, ma lo bollarono come fascista. Re Cecconi era un paracadutista e quindi l’equazione fu molto semplice: aveva un disprezzo per la vita e voleva viverla in modo spericolato, quindi si era meritato quella pallottola. Non era assolutamente così. Innanzitutto non era di destra, ma semplicemente si disinteressava della politica. Non aveva mai detto: 'Fermi tutti, questa è una rapina'. E questo emerge chiaramente dagli atti processuali. Il mito si crea su questo equivoco con un vortice perverso favorito dallo schiacciamento dell’opinione pubblica foraggiata dalla lobby degli orafi".
La "lobby degli orafi" aveva una forza tale da influenzare l'opinione pubblica? "All’epoca era una categoria molto forte politicamente. Gli orafi erano costantemente vittime di rapine. Basta pensare a quello che sarebbe accaduto nel 1979 a Milano con Torregiani. Da diverso tempo erano presi di mira da parte dei gruppetti del sottobosco eversivo e dagli extraparlamentari di destra e sinistra che utilizzavano le rapine per l’autofinanziamento. Gli orafi si ritrovarono con un omicidio eccellente, quello di un calciatore famoso, che li portò sulle prime pagine di tutti i quotidiani e sulle reti Rai e a questo punto si strinsero intorno a Bruno Tabocchini pretendendo una sentenza di assoluzione per il gioielliere. Fecero una petizione popolare e presidiarono per 18 giorni il tribunale di Roma. Contemporaneamente Re Cecconi venne abbandonato dalla tifoseria laziale e non venne sostenuto dall'opinione pubblica dopo la demonizzazione subita da parte della sinistra. Abbandonato a se stesso lo sfortunato Re Cecconi, passò il teorema dello scherzo. A questo punto il giudice, nonostante le forti richieste della pubblica accusa contro Tabocchini che smontavano completamente la teoria dello scherzo finito male, diede ragione alla difesa e assolse il gioielliere. Per questo motivo per 35 anni si è perpetrato questo mito".
Quali sono state le reazioni davanti alla sua inchiesta e alla riapertura del caso? "La prima reazione è stata quella della famiglia di Re Cecconi. La moglie e vedova di 'Cecco' e i suoi figli mi hanno ringraziato perché ho dato loro delle certezze su quelli che fino ad oggi erano solo indizi. Non dimentichiamo che al tempo della tragedia la moglie di Re Cecconi aveva poco più di vent’anni, il primo figlio due e il secondo solo sei mesi. Non avevano seguito il processo e le carte non le avevano mai viste. Quindi una reazione estremamente positiva da parte di chi ha sempre avuto dei sentori che le cose non erano andate come venivano raccontate. C’è stata poi quella altrettanto positiva di tutti gli ex compagni del calciatore. I campioni d’Italia della Lazio sono venuti alla presentazione del libro e di un film sulla vicenda censurato dalla Rai. Anche loro mi hanno confermato che avevano dei dubbi, ma nessuna certezza".
C’è stata però anche qualche reazione negativa da parte dei nostri colleghi giornalisti. "E’ stata una piccola parte formata perlopiù da alcuni giornalisti dell’epoca che percorrendo il filone del sentito dire e della vox populi hanno avvallato e avvalorato la tesi dello scherzo senza andare a leggere le carte del processo o a raccogliere le testimonianze di prima mano. Si sono scontrati con la mia versione e qualcuno di questi giornalisti non ha voluto accettare la revisione. Invece in questi casi la revisione è importantissima, basta pensare al caso di Donati Bergamini che è tornato alla ribalta in questi giorni con la riapertura del caso e il ribaltamento delle teorie iniziali".
Lei ha accennato anche allo strano caso del film della Rai prima girato, poi censurato e quindi mai andato in onda. "S'intitola L'appello - Il Caso Re Cecconi, non è mai stato diffuso e nessuno, neanche chi l’aveva interpretato, l’aveva mai visto. La prima assoluta di questo film è stata il 18 gennaio 2012 durante la presentazione ufficiale del mio libro. Il film è stato realizzato nel 1983 e svelava tante verità nascoste, ma venne subito censurato perché la famiglia del gioielliere si oppose denunciando la Rai e lo sceneggiatore. La causa è andata avanti per tredici lunghissimi anni e per tutto questo periodo il tribunale ha intimato alla Rai di non mandarlo in onda. La cosa strana è che la Rai ha vinto la causa, ma poi non l’ha mai mandato in tv arrivando a dimenticarsi di averlo girato. E’ un film importante perché evidenzia tante di quelle falle della vicenda che poi ho riscontrato nel mio libro".
NO alla discarica di via Ardeatina (Falcognanna, che non c'entra quasi un cazzo col Santuario che sta vicino al Raccordo...lì il business sò le case...)
12:20 - Vacanze rovinate per Delio Rossi: nella notte di domenica scorsa, alcuni ladri si sono introdotti nella sua villetta a Foggia portando via quadri, pezzi di argenteria e altri oggetti di valore tra i quali trofei vinti da giocatore e allenatore. L'ammontare del furto è di qualche migliaia di euro. L'allenatore, che risiede a Roma, è legato alla città pugliese: di Foggia è sua moglie e lui stesso ha vestito per 6 anni la maglia rossonera dei locali.
Ad una settimana dalla violenta repressione che tentò di non far svolgere un'assemblea pubblica con le lavoratrici della Sodexo in piazza Verdi a Bologna, assemblea poi svoltasi regolarmente, oggi gli studenti incuranti del divieto della Questura e dei manganelli si sono nuovamente ripresi la piazza, la stessa piazza, CACCIANDO GLI SBIRRI, così come si può vedere
Bologna: la polizia scappa da Piazza Verdi. Oggi si vince, per davvero! Alle 18h gli studenti e le studentesse dell'università di Bologna organizzati nel Collettivo Universitario Autonomo, come annunciato, da via Zamboni 38 megafono in mano si avvicinano verso piazza Verdi per allestire l'assemblea pubblica di analisi dei fatti di giovedì scorso. All'altezza di via Zamboni 32 trovano davanti a loro un primo schieramento di celerini e carabinieri, che insieme ai vigili dicono che non li lasceranno passare e che non possono accettare che entrino in piazza con il megafono.
Dopo poco la celere si schiera ad imbuto proponendo al gruppo di passarci in mezzo per raggiungere la piazza. Gli studenti che erano già aumentati di numero rifiutano con decisione l'umiliazione e il sopruso dal sapore cileno architettato dai dirigenti della piazza. E iniziano gli slogan: "assemblea, assemblea, assemblea!", "vergogna", "fuori gli sbirri da piazza Verdi!". Un compagno dal megafono grida: "è nostro diritto raggiungere la piazza per costruire all'assemblea che avevamo indetto. Non accettiamo di essere scrutati o di passare in mezzo alle forche caudine. Levatevi da qui che non siamo disposti a cedere alcuno dei nostri diritti". Intanto i primi cordoni si stringono.
"Assemblea, assemblea!", e gli studenti e solidali aumentano, chiamati dai social network che pubblicano cronache e foto di quanto sta accadendo. Passano decine di minuti e mentre arriva mezza questura in piazza Verdi con altri celerini schierati, il numero dei manifestanti aumenta. Le guardie non cedono, sono determinate a reprimere la piazza, ma in risposta la determinazione degli studenti e delle studentesse aumenta. I cordoni premono sui celerini, le prime manganellate colpiscono le teste, e le scudate si alzano per tagliare le braccia e i colli. Ma nessuno indietreggia. "Assemblea, assemblea!", e si spinge in avanti ancora, non curanti delle mazzate, "piazza Verdi è nostra!", e anche gli studenti che ai lati erano rimasti a guardare rispondono agli slogan e si avvicinano alle guardie, che fanno i primi passi indietro.
Ma le cariche, schizofreniche si ripetuno: due, tre, quattro, cinque. I manifestanti vanno avanti e i carabinieri e la celere indietreggiano, indietreggiano e poi di corsa si danno alla fuga: "carica!" grida la piazza, mentre le guardie in fuga raggiungono le camionette a Largo Respighi e vi si rifugiano. "Abbiamo vinto!", e questa volta per davvero! Inizia l'assemblea, numerosissimi interventi si succedono: il CUA, i compagni e le compagne di Hobo e molti studenti e solidali rilanciano subito con gli appuntamenti per domani. [Guarda un primo video]
La giornata di oggi con la messa in fuga della celere e la conquista di Piazza Verdi ci restituisce una significativa immagine di conflitto sociale che promette di avere le sue durate. Dopo gli eventi della scorsa settimana all'Unibo non si è fatto il passo indietro che le autorità cittadine si auguravano. Al contrario si sono fatti passi avanti che segnano la possibilità di organizzare antagonismo sociale e contrapposizione politica alla crisi.
La legittima rigidità degli studenti e delle studentesse di esercitare in maniera conflittuale il proprio diritto d'espressione politica ha messo in fuga le istituzioni dell'1%, che a piazza Verdi oggi non sono passate, e in futuro non passeranno, se non con grandi sforzi, e dovendo affrontare la gioiosa intransigenza dei compagni e delle compagne.
"Come ha senso ROMA 1927, ovvero tutto il mondo deve sapere che a Roma c'è una squadra che si chiama ROMA ed è nata nel 1927... Poi ci sono altre 1000 squadrette che non contano un cazzo tipo Palestra Santuzzi, S.S.Lazio o Corviale Calcio."
Umberto Ambrosoli non ce l’ha fatta e mentre il consiglio regionale della Lombardia commemorava Giulio Andreotti, morto ieri, è uscito dall’aula del consiglio regionale della Lombardia. L’avvocato, candidato del centrosinistra alla poltrona di governatore conquistata da Roberto Maroni, non ha partecipato alla cerimonia e al minuto di silenzio rispettato per ricordare l’uomo politico più controverso e discusso della storia repubblicana italiana.
Tutti i consiglieri, compreso il segretario della Lega Maroni, hanno ascoltato in piedi il discorso del presidente Raffaele Cattaneo. Ma non Umberto, figlio di Giorgio il commissario liquidatore della Banco Ambrosiano assassinato nel 1979 dai sicari di Michele Sindona. Interpellato, il suo staff ha spiegato che non ha voluto fare “polemiche né commenti per rispetto alla morte di una persona”, ma che non ha voluto condividere la commemorazione. Il discorso per ricordare il senatore a vita è stato ascoltato in silenzio e in piedi dai consiglieri di maggioranza e di opposizione.
”Ho una storia personale che si mischia” coi lati oscuri di quella di Andreotti, “ma non è il caso di fare polemiche: è giusto che le istituzioni ricordino gli uomini delle istituzioni, ma chi ne fa parte faccia i conti con la propria coscienza” ha detto ai giornalisti Ambrosoli. “E’ comprensibile – ha argomentato è il coordinatore dei gruppi di centrosinistra al Pirellone – che in occasione della morte di persone che hanno ricoperto ruoli istituzionali di primo piano le istituzioni le commemorino. Ma le istituzioni sono fatte di persone, ed è legittimo che queste facciano i conti con il significato delle storie personali”.
Il figlio dell’eroe borghese, come venne definito in un libro di Corrado Stajano, non è entrato nei dettagli della vicenda drammatica che ha coinvolto la sua famiglia né nei rapporti che vari procedimenti giudiziari hanno rintracciato fra Andreotti e Sindona (quest’ultimo condannato come mandante dell’assassinio), e senza citare quella definizione data dallo statista Dc a proposito del padre, uno “che in termini romaneschi se le andava cercando”.
Era il 2010 quando, in una puntata de “Lastoria siamo noi”, Andreotti rispose così sul perché, secondo lui, Giorgio Ambrosoli era stato ucciso: “Questo è molto difficile, io non voglio sostituirmi né alla polizia né ai giudici”, rispose il senatore a vita guardando a un tempo in cui ricopriva cariche di governo al massimo livello. “Certo – aggiunse subito Andreotti – era una persona che in termine romanesco direi se l’andava cercando”. Una frase che, insieme ai rapporti personali fra il sette volte presidente del Consiglio e il banchiere Sindona, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio del commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, è sicuramente ben presente nei pensieri del figlio Umberto.
Ai giornalisti l’avvocato, che ha fatto della pacatezza la sua cifra di espressione, ha ribadito che “ci sono lati oscuri della vita di Andreotti verso i quali ciascuno ha la sua sensibilità” al di là del rispetto per una persona deceduta: “Questi elementi – ha concluso Ambrosoli – continuano anche nel momento del ricordo, pur senza polemiche”.
Il presidente del consiglio lombardo Cattaneo ha ricordato l’ex premier democristiano sottilineando che “il suo percorso politico e istituzionale si radica nella sua formazione culturale maturata sull’impronta di un cattolicesimo popolare e fedele alla tradizione che ha rappresentato per tutta la vita il riferimento del suo agire dentro e fuori le istituzioni”. “Al di là delle opinioni differenti che legittimamente si possono avere sulle ombre e sulle vicende giudiziarie che ne hanno segnato la vita negli ultimi anni – ha proseguito -, sono comunque esemplari la temperanza, il rispetto delle istituzioni (inclusa la magistratura) e l’umiltà con cui ha affrontato il giudizio dei tribunali”. Dunque, ha concluso il presidente del Consiglio regionale lombardo prima di chiedere il minuto di silenzio alla memoria di Andreotti, “con la sua scomparsa se ne va un pezzo della storia italiana, dunque qualcosa che appartiene a tutti, amici e avversari politici”.
“Quando si opera nelle istituzioni, ci sono responsabilità collettive che trascendono le valutazioni squisitamente personali” dice Cattaneo. “Rispetto le ragioni personali e neppure io voglio alimentare polemiche, ma – dice l’esponente del Pdl – sono rimasto francamente sorpreso dalla scelta di Ambrosoli di uscire volontariamente dall’Aula”. Per Cattaneo, “la commemorazione si è tenuta in un clima non di celebrazione, ma di giusto omaggio al percorso politico di un uomo delle istituzioni che, seppur nelle vicende alterne, come tra l’altro ho ricordato anch’io nel mio intervento, ha indelebilmente segnato la vita del nostro Paese e ha contribuito da protagonista alla costruzione della democrazia in Italia dal dopoguerra ai nostri giorni”.
Per Maroni invece quello di Ambrosoli “non è stato un gesto elegante nei confronti di un politico che ha segnato la storia d’Italia”.